Le distanze non mi piacciono affatto e non mi sono mai piaciute.
E mai come in questo periodo la distanza che è utile e necessaria in questo caso, mi sta comunque mettendo a dura prova, perché a distanza mi sono tutti un po’ più “antipatici” e cambia notevolmente la percezione della realtà. L’altro giorno parlavo con un collega proprio di questo, di quanto l’incomunicabilità di questo periodo stia rendendo difficile l’interpretazione degli eventi, di quanto il “non detto” lasci troppo spazio talvolta al giudizio, al dubbio, all’immaginazione, o talvolta al “mi sembra che in questi giorni quel collega ce l’abbia proprio con me”.
La distanza ci riporta un po’ tutti lì, a quella fragilità e bisogno di conferme che credo abbiamo un po’ tutti e che questa volta tardano ad arrivare perché si fermano prima, ad un metro di distanza, o sotto ad una mascherina dentro la quale la vita e le emozioni continuano a scorrere esattamente come prima ma rimangono più intime ed inaccessibili; siamo tutti un po’ più privati ed un po’ meno esploratori o l’esplorazione ci è ancora concessa si, ma si ferma, ad un metro di distanza.
Il nostro lavoro di operatori socio sanitari o educatori non le prevedeva queste distanze e trovarsi ora a doverle rispettare è faticoso e talvolta anche imbarazzante perché sai che il”messaggio”che stai mandando non è più lo stesso, che da qualche parte, almeno ad un metro di distanza, si blocca la spontaneità di quel gesto, di quel pensiero: mi è capitato ad esempio di dire ad un ospite con tutto il calore che potevo mettere nel mio sguardo o nella mia voce “guarda in questo momento ti abbraccerei ma non posso” e appunto dovermi fermare lì, all’intenzione, ad un metro di distanza.
E sono gli occhi appunto o la voce maggiormente chiamati in causa in questo periodo e so, da esperienze di teatro passate, che con gli occhi, ad usarli bene, si può fare davvero un gran rumore. E si può far finta anche di abbracciarsi. Perché si, in quarantena, e ad un metro di distanza è nascosta, e lo stiamo vedendo con i nostri ragazzi, una bella possibilità di scoprire quello che gli occhi non erano abituati a fare ad esempio e a dare valore a qualcosa come mai prima era successo, e parlo di abilità, perché si mettono in gioco abilità e competenze diverse (e noi in Aurora ci stiamo scoprendo tutti un po’ più cuochi, pasticceri, cantastorie o giocatori di bocce) ma anche di calore..; si, sembra strano, ma quell’impossibilità al contatto fa sentire fortemente com’era bello farlo e desiderare che si possa in fretta ritornare a farlo; è come quel saluto che ti fai e si stanno facendo tante persone dalla finestra o quella videochiamata con la persona che ami ma che appunto non puoi incontrare…; rimane il calore e il ricordo di quello che è stato, ed era possibile, a mantenerci in vita.
E anche ad un metro di distanza.
Elisa Perotto