Quello che si sa è che, quando si inizia a lavorare per Progetto Emmaus, si porta con sé un bagaglio di esperienza di studi, professionale e personale più o meno pesante, a seconda dell’età di vita e di quella esperienziale, naturalmente. Quello che è meno noto, almeno inizialmente, è che la nostra Cooperativa è essa stessa un organismo vivente e in viaggio, con una valigia colma di saperi, di valori, di passioni e di inciampi, con anni di vita con il vento in poppa e anni di navigazioni di bolina, risalendo la corrente, nonostante i venti in prua, grazie al gioco di squadra.
Ciò che diventa una sfida per tutti è dunque il capire come fare incontrare la storia passata di Progetto Emmaus con la realtà attuale, come coniugare il sistema valoriale e la mission che noi vecchie guardie di cooperativa sentiamo ancora scorrere nelle vene, con la portata di nuove idee, nuovi valori, nuovi punti di vista, senza scivolare nel conservatorismo autocratico che rischia di voler riempire come brocche le nuove generazioni di risorse umane che scelgono di lavorare con noi. Si tratta di far dialogare tra loro due termini: l’in-segnare (mettere dentro) e l’e-ducare (condurre fuori); le nuove generazioni vanno anzitutto accolte e ascoltate con curiosità intellettuale nella loro unicità professionale, che trova spazio di realizzazione entro la cornice del modello Emmaus.
Come cooperativa crediamo sia importante investire nelle nuove generazioni provando a “passare” un modello operativo costruitosi nel tempo e alcuni valori in cui crediamo. Così, da alcuni anni, periodicamente proponiamo ai Neo-Assunti di parteciapre ad un ciclo di incontri di formazione.
Quando, con un passaggio di staffetta da parte di altre “vecchie” colleghe, ci è stato affidato il compito di programmare la formazione neo-assunti 2016, ci siamo sentite lusingate e privilegiate, consapevoli che l’atto stesso del “formare” è reciprocità e avrebbe quindi comportato un ritorno e un arricchimento anche per noi. Abbiamo scelto di lavorare attraverso il canale creativo delle terapie espressive dando alla parola formazione l’accezione del costruire e certe che quanto più si mette mano in un percorso, tanto più lo si sente proprio e autentico. E può lasciare un segno.
Il primo dei tre incontri ha preso vita intorno ad alcune domande aperte: “Chi sono io nella mia cooperativa?”. Con i materiali messi a disposizione sono stati realizzati dei lavori espressivi attraverso i quali ci si poteva raccontare e scoprire in un clima di serena accoglienza e di sospensione del giudizio. “Come mi sento?” e ancora “Dove mi colloco?”. Abbiamo immaginato la cooperativa come un corpo umano con apparati, organi, sistemi, funzioni, tutte diverse, ma egualmente importanti per il suo funzionamento. I lavori sono stati collocati dai colleghi su una sagoma umana di cartone a grandezza naturale . L’immagine che ne è emersa ci ha colpiti: le nuove generazioni professionali si sono collocate principalmente nella parte alta del corpo Emmaus: nella testa, nelle braccia, nelle mani, nella pancia o ancora fuori dalla sagoma stessa. Chi sta entrando, si pone nell’atteggiamento osservativo per comprendere e apprendere, si sente un bracciante, porta avanti del lavoro, si pone curioso come un foglio bianco tutto da scrivere, si sente frullato nella pancia mentre cerca di orientarsi nelle mansioni e negli incarichi nuovi o si sente una barca sola in mezzo al mare. La parte bassa della nostra sagoma, la parte portante, è rimasta vuota. Ci siamo domandati quale sagoma sarebbe stata realizzata, da colleghi più anziani o dal gruppo dirigenziale?
Nella seconda parte della mattinata ci ha raggiunti il presidente Alberto Bianco e abbiamo ripercorso con lui, in una chiacchierata nel tempo, le tappe della Cooperativa dalla sua fondazione ai giorni nostri. Come è stata la cooperativa di ieri? Dove siamo oggi e dove andremo domani? La valigia dei colleghi intanto era aperta, qualcuno la osservava, qualcuno toglieva qualcosa per fare spazio ad altro, qualcuno ammucchiava tutto dentro alla rinfusa e qualcun’altro ci rimproverava dei troppi contenuti in poco tempo.
Entrare nella nostra cooperativa significa assumersi la responsabilità di prendere in mano un pezzo del suo stesso percorso di vita e collocarlo nel tempo, facendone al contempo bagaglio prezioso per il proprio cammino professionale e di vita.
Nel secondo incontro siamo entrati nel vivo della formazione: il lavoro individuale e il lavoro di gruppo. Abbiamo invitato i colleghi a portare fisicamente un oggetto del proprio lavoro: “Cosa racconta del mio io professionale?”. Superata qualche timidezza e ritrosia iniziale, nel nostro cerchio sono comparse agende, fogli turni, matite, una coperta, un cane (vero!), dei farmaci, delle cartelle e tanto altro. E da elementi concreti si sono snocciolati racconti appassionati e appassionanti delle nostre fatiche e delle nostre soddisfazioni quotidiane, dei rituali con ospiti, delle relazioni con famiglie e colleghi. Le parole hanno iniziato a scorrere libere, sicure dell’ascolto dell’altro. E come per ogni narrazione che si rispetti, a ciascuno di noi hanno lasciato un segno, ad ognuno il proprio, un pensiero, un ricordo, un’idea, un altro piccolo cadeau da mettere in valigia.
Come avviene l’incontro tra il mondo colorato, vario, complesso del lavoro che svolgo come individuo e il lavoro ‘di’ e ‘in’ équipe, come previsto nel nostro modello? “Cosa significa lavorare nel gruppo?”. Poste alcune fondamenta e strumenti di base per governare la varietà personale e professionale, senza farla degenerare nel caos e poste alcune linee guida e procedure che regolano e monitorano le attività, l’individualità, assieme al valore aggiunto che mette ogni singolo in ciò che fa, viene considerata da sempre e rimane per noi un’opportunità per la crescita del gruppo. Per sua natura infatti, un gruppo tende all’omeostasi e all’omogeneità. L’equilibrio, in una istituzione sana, non può diventare però una fortezza da difendere alzando muri e barricate. Deve rimanere un obiettivo fluido verso cui tendere in un moto continuo, cercando strategie insieme , lasciando aperte le porte al pensiero divergente, agli aspetti creativi, allo stupore fanciullo per il nuovo. In questo senso la cooperativa può essere considerata un organismo vivente e fertile.
Nel terzo ed ultimo incontro abbiamo messo in scena le parole del lavoro di gruppo con delle improvvisazioni teatrali. Hanno preso vita il noi, la squadra, il sostegno, la cultura di gruppo, la protezione, il confronto e tanti altri concetti emersi nel nostro percorso. Difficile per chi scrive riuscire raccontare con efficacia l’emozione e la potenza che le immagini sanno dare, ben sapendo che per un operatore sociale si mescolano il piano emozionale e quello professionale come i colori in un quadro impressionista.
Stefano Carlotta, un collega che come noi di strada in Emmaus ne ha percorsa parecchia, ci ha aiutate, infine, a concludere il percorso raccontando la sua esperienza in prima linea e commentando le proiezioni dei nostri docu-film “Mi chiamo io da solo” e “Sui fili della rete” (https://progettoemmaus.it/5×1000/). Che si tratti di lavoro sul territorio o di lavoro nelle strutture residenziali, che si tratti di lavoro nelle retrovie o di governance, che siamo cuore, testa, pancia, gambe, mani o occhi di questa cooperativa, a seconda del periodo personale, professionale ed esperienziale, ciò che conta è che ognuno metta il proprio pezzetto di lavoro trovandovi il senso e la realizzazione di sé.
Tantissimi, davvero tantissimi fili scorrevano nelle creazioni artistiche del nostro gruppo. Fili che legavano, fili che connettevano, fili che cercavano di raggiungersi, di toccarsi, di trovarsi. I fili scorrevano, vividi ma silenziosi, come il sangue, da parte a parte nel corpo Emmaus. E quello che portiamo a casa noi dal viaggio coi colleghi neo-assunti e che conserveremo con cura nella nostra valigia è proprio questa immagine: la consapevolezza che la linfa deve scorrere, le persone devono potersi fermare e dialogare, accorciando distanze e aprendosi altri mondi possibili.
Katia Bertero e Daniela Pennacchia