Tutto d’un tratto, sdraiati sul divano, non troviamo più la coperta che, poco prima, era calda, avvolgente, accogliente e rassicurante. No. I fili che ne compongono il tessuto improvvisamente diventano incolore e ognuno assume caratteristiche mai viste prima: al posto della morbidezza la pesantezza e l’incertezza, al posto del calore incredulità e sfiducia, al posto del colore la sofferenza e la stanchezza. Improvvisamente, il nostro giaciglio diventa scomodo, spigoloso, abbiamo brividi di freddo, dolori qua e là, ci alziamo indolenziti, difficilmente con una coperta simile riusciremo a coprirci, riposarci, scaldarci per darci la possibilità di sognare.
Quelle che fino a ieri erano sensazioni o modi di essere assumono concretezza con il passare dei giorni e questa volta non possiamo neppure pretendere conforto da un amico, non possiamo gioire di un obiettivo raggiunto a lavoro, non possiamo consolarci con una crasta pizza a mezzanotte … il mondo intorno forse si sta spegnendo, svelandoci l’impotenza, la debolezza e la fragilità che da sempre ci accomuna … – forse ci eravamo semplicemente dimenticati-.
<<Che rumore fa la felicità? >> cantavano i Negrita, – mi torna in mente questo verso-, forse nessuno, forse non fa rumore, forse, “semplicemente”, come la coperta, riscalda, rassicura, attutisce i colpi.
Inizia a sentirsi quella parola: lock down. Termine che, oggi, ormai, ci invade la testa da tempo, facendoci sentire anche un po’ confusi.
I pensieri si susseguono incalzanti, come in un flusso di coscienza …
- Beh dai finalmente mi riposo qualche giorno … –
- Forse, questo lock down durerà più di qualche giorno …-
- Devo inventarmi un nuovo intervento educativo! Ma no dai, come faccio? Lavorerò a quegli obiettivi appena ritorneremo ad abbracciarci, tanto, andrà tutto bene…-
Disegno un arcobaleno pensando che mi rassicurerà …
Passano i giorni.
- Mi sembra proprio di buttare all’aria quattro anni di lavoro, quando torno chissà se i miei bimbi (come li chiamo io) ricorderanno ancora tutto ciò che avevano imparato? Devo inventarmi qualche attività, nuove modalità per interagire anche con chi è apparentemente inarrivabile-
Le idee non arrivano subito, devo accettare la situazione statica, come nel limbo, senza risposte certe e preconfezionate ma allo stesso tempo con tantissime possibili alternative.
Finalmente intraprendo un cammino, -sarà quello giusto?, l’incertezza non mi deve divorare!- , ne intraprendo altri, tanti quanti i bambini che conosco, con ognuno devo modellare attività e modalità (in fondo già prima lo facevo): è cambiato il luogo, il mezzo, la concretezza di un corpo caldo, sudato, sbavato (in fondo non era nemmeno così piacevole).
- Dai questo infido lock down non è così male!-
La creatività non manca, ritmi lenti e più tempo per se stessi, alla fine è quello che ricercavamo da tempo. Inizio a pensare che, forse, ci farà bene, questo periodo.
- Beh, però, se accendo la tv, se sfoglio un giornale (rigorosamente online), non posso egoisticamente pensare che questo lock down ci farà bene.-
- Forse deve farci bene perché altrimenti non lo posso accettare, la mia interiorità non lo può accettare, le mie emozioni non reggerebbero, come si possono accettare tutti questi morti? L’annullarsi della dignità di fronte ad un funerale negato, la mancanza di umanità e riconoscenza di fronte a centinaia e centinaia di anni di vita chiusi in sacchi neri con una mera benedizione e lacrime amare-.
Il peso, la sofferenza, l’incredulità si concretizzano nel mio corpo, nel mio stomaco, nella mia mente.
Il sole fuori brilla, la natura va avanti come se nulla stesse accadendo.
- È semplicemente questione di accettazione, non può essere altrimenti…- .
- Come si può accettare una situazione così poco umana? –
Mi aggrappo alla poesia, di tanto in tanto leggo per cercare parole scritte simili ai miei pensieri, per trovare quella coperta accogliente e per attutire il peso che dalla mia gola scende fino ad invadermi il ventre. Forse si tratta solo di digerire il tutto: deglutire e dimenticare. Dato che dimenticare non mi è possibile, accenno ad accettare una nuova me, conscia dell’inaccettabile e conscia di ciò che di prezioso ho trovato in questi giorni e di ciò che vorrò ancora trovare alla fine di questi giorni di chiusura.
Immagino i frutti della chiusura, come di un lock down generativo, non aspettative, né un futuro a sette colori. Mi immagino un albero su cui crescono diverse tipologie di frutti: il frutto del saper stare, il frutto del saper riconoscere, il frutto del saper essere ancora una volta generativi, il frutto del sapersi riconoscere deboli, il frutto dell’accettarsi limitati e non onnipotenti, il frutto della riconoscenza e dell’umanità.
Questa è stata la mia personale alternanza di pensieri, tutt’ora in continua evoluzione.
In questo continuo subbuglio emotivo, mi è tornato spesso in mente ciò che si dice dell’operatore sociale: un professionista camaleontico. In questi giorni né ho compreso il significato, anzi ho quasi sperato fosse una predizione, un qualcosa da ripetere come un mantra purché si avverasse.
-Devo essere camaleontica, ho bisogno di essere camaleontica, diventerà il mio super potere.-
Michela Ponchione