Fino a qualche mese fa l’educatore professionale, stretto tra la quotidianità, la relazione con gli utenti, con i loro famigliari e le procedure necessarie a far funzionare il servizio, rischiava di non occuparsi più completamente di ciò che rende il suo lavoro unico e differente da quello di altri professionisti.
Infatti, rischiava di perdere di vista la sua principale prerogativa: lavorare per rendere possibile che qualcun altro, che sia un allievo a scuola, quando ricopre il ruolo di assistente alla comunicazione o un ragazzo/giovane adulto, quando lavora sul territorio o nell’extra scuola, sperimenti la tanto ricercata quanto sospirata normalità, che emerge, ancor di più adesso, dopo l’arrivo del Coronavirus.
La storia e l’esperienza ci insegnano che la base del nostro lavoro è la relazione educativa con gli utenti, che porta, inevitabilmente, l’educatore professionale a mettersi in gioco all’interno di ogni intervento che svolge. Tutto ciò, però, non può bastare e non può essere sufficiente per dare efficacia e qualità al proprio operato, occorre portare con sé dei veri e propri campi di esperienza.
Partendo dall’esperienza e dalle capacità uniche di ognuno di noi, formatesi dopo anni di lavoro in prima linea sul campo e con fondamentali momenti di formazione, bisogna fare in modo di predisporre un progetto educativo che contenga le condizioni perché, gli utenti in primis, ma anche le loro famiglie, all’interno di spazi e tempi dedicati, sperimentino momenti di vita significativi.
Per l’educatore fino a qualche mese fa, prima dell’avvento del Coronavirus, diventava difficile riuscire a documentare regolarmente e progettare sistematicamente il tempo quotidiano “speso in un servizio”, vista la frammentazione del servizio. All’interno di una stessa giornata si trovava, infatti, a lavorare con più utenti e in contesti molto differenti tra loro, per tanto non gli restava che agire, inventando nuove proposte di attività che prendevano anche spunto dalle proprie passioni extra lavorative.
Tutto ciò porta ad avere l’immagine di un educatore che, prima di intraprendere un intervento, sia esso a casa di un ragazzo sia scuola, organizzava il suo zainetto o la sua cassetta degli attrezzi con gli strumenti necessari per permettergli di portare avanti i suoi progetti educativi quotidiani: pazienza, energia, entusiasmo, una palla, un libro, una trottola, ecc. Oggi, invece, in piena emergenza sanitaria, l’educatore è costretto a svolgere il proprio lavoro a distanza, chiuso a casa in una quotidianità che dir cambiata è dire poco. Mai come ora nel suo zainetto non devono mancare, fantasia, creatività, immaginazione e progettazione, che insieme a un computer, un telefono o un tablet gli permettono di continuare a portare avanti il suo lavoro di “relazione a distanza” con gli utenti e con i famigliari.
L’utilizzo dei dispositivi mobili ha fatto sì che ogni educatore dovesse reinterpretare il proprio ruolo e il proprio intervento, facendo profonde riflessioni su se stesso e sulle proprie competenze, dando fondo a tutto l’estro di cui dispone per dare un significato al suo intervento educativo e per cercare di ridurre in qualche modo la distanza che lo separa dall’utente.
Questa capacità di “mettersi in gioco” sotto una nuova veste, ha portato alla nascita di gite virtuali alle mostre, tour nei musei, ricerche e video su internet riguardo personaggi famosi da intervistare, veri e propri “show coking” o lezioni di cucina in diretta, pizzate o merende a distanza, sfide a giochi da tavolo… tutte proposte probabilmente impensabili da fare a distanza prima del lockdown, ma oggi diventate “normalità” negli interventi educativi quotidiani.
Questo nuovo modo di “fare l’educatore” porta spesso ad avere un riconoscimento maggiore da parte della rete dei servizi e soprattutto delle famiglie per il lavoro svolto.
Questi interventi più informali hanno permesso che i legami diventassero più profondi: genitori che, davanti a uno schermo, si sentono più liberi nel condividere i propri problemi quotidiani, le proprie preoccupazioni nella gestione dei figli, perché dall’oggi al domani non hanno più potuto usufruire dei servizi educativi che frequentavano, finendo per rimanere chiusi tra le mura di casa, che per alcuni sono troppo strette per la propria disabilità.
Può sembrare impensabile, ma anche una semplice telefonata o una videochiamata di pochi minuti può alleggerire il peso che ha creato questa situazione: il sapere che l’educatore è comunque presente e condivide con loro problemi, preoccupazioni o anche solo li sta a sentire, fa sì che queste famiglie non si sentano sole o abbandonate ma possono godere di una salutare e rigenerante boccata d’ossigeno.
Nonostante il periodo storico in cui ci troviamo, quindi, non va dimenticato mai che, a prescindere dall’esperienza personale e dagli strumenti che utilizza e che si porta dietro, l’educatore trova la sua professionalità se è in grado di entrare in relazione con l’altro.
Ma ciò non basta sempre per essere definito un bravo professionista, infatti, molto spesso l’operato di un educatore rimane invisibile per molto tempo: gli effetti di alcuni interventi, vuoi per la complessità del caso seguito, vuoi per le difficoltà ambientali o per il poco tempo a disposizione per lavorare con il ragazzo, non sempre sono visibili nell’immediato. È qui che entra in campo la sua professionalità: l’educatore attento ridefinisce, rivede, modifica in itinere il proprio intervento, quasi come un camaleonte che cambia colore in base al contesto, ponendosi quotidianamente il dubbio di come educare, cioè come definire un progetto educativo che si basi sui principi del prendersi cura, accompagnare, sostenere l’utente di cui si occupa e la sua famiglia.
Mai come in questo periodo di difficoltà e di lontananza sociale, nasce l’esigenza di mettere in campo la propria esperienza personale, l’aprire i “lacci dello zainetto” o i “ganci della cassetta degli attrezzi” per tirar fuori gli strumenti utili per promuovere il cambiamento, per accrescere le potenzialità, per cercare di “tirar fuori” il meglio del ragazzo che sta seguendo e per potenziarne le autonomie: in altre parole, iniziare dal presente a progettare il futuro.
Anche se quotidianamente dobbiamo districarci tra le mille difficoltà che si presentano nel nostro lavoro, in questo momento storico della nostra vita professionale, non dobbiamo sprecare il tempo che abbiamo a disposizione, anche se a distanza con l’utenza, dobbiamo ancor più continuare a rinnovarci, a ripensarci, a formarci e ad imparare a gestire al meglio le nostre emozioni, senza perdere di vista quanto, educativamente parlando, diventi una “ricchezza” e una “risorsa” una telefonata con le famiglie e con gli utenti che seguiamo.
L’operato dell’educatore, che sia in presenza o che sia a distanza, non deve prescindere dall’obiettivo di rendere più piacevole e gratificante possibile, la quotidianità di ragazzi, giovani, adulti che si trovano, ancora di più ora, in condizioni di disagio ad affrontare troppe difficoltà, mentre non chiedono altro, di potersi sentire adeguati e, soprattutto, normali.
e.p. Roberto Schinca
Super Educatori!!