Mi chiamo Andrea, o anche “Filippo” per il nostro amico Roberto. Fino a 3 anni fa gestivo insieme ad un amico un bar ad Alba in piazza San Giovanni, luogo dove ogni giorno incontravo operatori e ospiti di Progetto Emmaus. Io avevo solamente 19 anni e tutto ciò che era al di fuori della classica vita adolescenziale albese mi era del tutto sconosciuta, mi appariva strana. Mia sorella lavorava nel sociale, diceva sempre riguardo alla sua professione: “Cerchiamo di accompagnare i nostri ospiti, aiutandoli a tornare ad essere liberi e ad autogestirsi, anche se solo in parte”. Non capivo fino in fondo cosa volesse dire.
Ero molto giovane e insicuro in tutto ciò che facevo, mi appoggiavo molto ai miei colleghi baristi e ne emulavo i comportamenti. Perciò non trattavo con le dovute attenzioni i ragazzi di Emmaus, anzi, li cacciavo dal bar dicendo che davano fastidio ai clienti, convinto di far bene il mio lavoro. Ma facendo così non stavo bene con me stesso. Un giorno decisi che sarei cambiato. Decisi di fregarmene di ciò che pensava un “normale” cliente. Da quel momento tutto cambiò.
Invece di fare stupide domande a mia sorella tipo “Di cosa ti occupi di preciso?” o “Come fai a lavorare serenamente in un ambiente del genere? Non hai paura?”, le chiesi: “Cosa devo fare quando arriva Robi al banco a chiedermi qualcosa?”, oppure: “Quando Gabri mi parla delle sue voglie cosa devo dirgli?”. Lei mi diede questo consiglio: “Loro vengono al bar perché come tutti gli altri hanno voglia e piacere di parlare e scherzare. Tu non sei un operatore, sei un barista, fai il tuo lavoro e cerca di farli sorridere come cerchi di fare con gli altri”. Così feci. A ogni loro richiesta, trattavamo i ragazzi di Emmaus da nostri amici e mentre gli sporgevamo il bicchiere d’acqua o i cappuccini o una mezza birra cercavamo sempre di farli scherzare, tanto da ricevere l’invito di Robi a sedersi con lui al tavolino e parlare di calcio.
Ma l’aneddoto che più mi rimase inciso nel cuore è quello col nostro grande Gabry. Un pomeriggio di primavera (non ricordo anno né mese purtroppo) passò davanti al bar e mi chiamò, invitandomi a fumare una sigaretta con lui. Di solito mi chiedeva se gliene offrivo una ma quel giorno, per la prima volta, fu lui a donarmela. Strano. La mia confusione aumentò quando vidi che lui non stava fumando, anzi era un po’ abbattuto nel vedere me che aspiravo boccate. Allora gli chiesi: “Ma Gabry, perché mi hai chiesto di venire a fumare e tu non fumi con me? Come mai mi hai offerto una sigaretta?”. “Andrea vedi”, rispose mostrandomi il suo zainetto. “Adesso mi hanno messo l’ossigeno per respirare meglio, e non dovrei più fumare. Quindi ho deciso di donarla a te l’ultima sigaretta del pacchetto”. Chiesi: “Perché Gabry l’hai data a me e non a Roby?”. E lui guardandomi molto dolcemente rispose: “Perché sei mio amico. Roby è mio compagno: a lui non fa bene fumare, quanto non fa bene a me”. C’è una cosa che oggi, mentre scrivo queste righe, mi colpisce: volevo aiutare loro a crescere, ma sono stati loro a far crescere a me. Ogni volta che penso a Gabry mi piange ancora il cuore per non averlo ringraziato abbastanza, prima di salutarlo.
Andrea Adriano
Commovente.. grazie, di cuore per questo racconto
Grazie Andrea!Buon Cammino!