Quando ti ho vista per la prima volta stavi riposando nella tua stanza. Le persiane erano socchiuse e i fermi assicurati con due cordini alla ringhiera per non farle muovere dall’aria. Cercavo di dare agli occhi il tempo di abituarsi alla penombra artefatta del primo pomeriggio, mentre le mie narici erano già state assalite dall’odore acre di urina che aleggiava. L’operatrice che ti presentò a me, mi disse con un filo di voce, tra l’imbarazzato e il divertito, che dovevi di certo aver fatto pipì. Ricambiai il sorriso con una smorfia non appena ti venne scostato il pannolone e ne avemmo conferma. Con movimenti esperti e rapidi che non riuscii ad imprimere nella mia memoria fosti pulita e profumata in un attimo e intanto, placida, spalancavi a noi i tuoi occhi neri: Laura.
Scoprii che siamo nate nello stesso anno, ma tu eri la metà di me e mentre il tuo corpo esile ti si aggrovigliava addosso in spasmi incontrollabili il mio imparava goffamente a compiere i primi movimenti giusti per renderti più sopportabile la vita. Mi guardavi, credo, e accennavi un sorriso, o forse una smorfia, non lo so: “Le braccia le muove, vedi?” mi diceva, con un entusiasmo incomprensibile per me, la collega che mi avevano messo in affiancamento. Io con i miei anni di studi sulle spalle e con molta inquietudine nella pancia avevo un solo impronunciabile interrogativo: e io che cosa ci faccio con te, Laura?
Dopo una serie di tentativi, raggiungemmo la posizione seduta sul letto: io ero già sudata e tu sospiravi emettendo un suono che mi parve una specie di risata. Una risata? Tu Laura? Mi venne comunicato che dovevo cambiarti la canottiera perché “un rigolo di bavetta l’ha inumidita”. Certo, pensavo, cambiamo la canottiera alla principessa, mentre io sono qui che faccio una sauna inspiegabile con ste finestre serrate e intanto, in un meandro nascosto e malvagio della mia mente, andavo rivalutando le posizioni spartane in merito alla rupe Tarpea.
Dopo le spugnature che ti lasciavi fare come Cleopatra dalla sua ancella, passai ad infilarti finalmente la canottiera pulita, prima il braccio che muovevi meno, poi la testa, ecco, e infine l’altro braccio: “Aspetta, stai ferma, fatto”. Ti vestivo con la stessa cura che impiego in genere per montare un mobile Ikea. Seguivo pedissequamente tutte le istruzioni per non correre il rischio di saltare qualche passaggio fondamentale e dover ricominciare da capo. E mentre ero alle prese con una cerniera lampo capricciosa, le tue mani minuscole e bianche toccarono per la prima volta il mio viso.
Pensai che fossero movimenti involontari e continuai il mio lavoro accanendomi con la zip come con una brugola, ma tu insistevi ancora e temporeggiavi accanto al mio orecchio facendomi il solletico con le dita. Fu solo allora che ti incontrai: “Ciao Laura…”
E’ difficile spiegare al mondo che sta fuori dal nostro mondo il linguaggio che si utilizza quando la disabilità è grave. Che poi questo termine cosa significa esattamente? Grave inteso come pesante? E pesante per chi? Per chi la disabilità se la porta addosso? Per chi la sostiene economicamente? Per gli sfuggenti occhi di colui che vi si imbatte?
In ogni caso, Laura, tu eri una disabile grave, gravissima per essere più corretti e conformi a quanto cita il DSM5. Così viene definito chi non deambula, non parla, ha un deficit intellettivo, non controlla gli sfinteri, non ha nessun tipo di autonomia e va aiutato in tutto e per tutto.
Quando ti misi sulla tua sedia a rotelle, imbragata come un’ alpinista, potei aprire le finestre e mi presi il tempo di guardarti un po’ meglio: eri bellissima. Con le braccia sottili riuscivi a scostarti i capelli corvini in una movenza molto femminile. La musica che avevo messo in sottofondo con l’intento di tenere compagnia a me stessa, in realtà ti piaceva e, lasciandomi basita, iniziasti a cullarti sorridendo, con gli occhi socchiusi. Mi appoggiai al letto, la tensione nelle mie spalle iniziava a scendere e non riuscendo a fare altro che continuare a guardarti mi sorprendevo ad interrogarmi di nuovo: quando era stata l’ultima volta in cui ero riuscita a lasciarmi andare alla stessa beata serenità del vivere il singolo momento come stavi mostrandomi tu?
Laura, io ero piena della mia superbia, con i miei testi sulla progettazione educativa mentre tu e la tua sfacciata invalidità al cento per cento, avete sparigliato le carte e iniziato a farmi crescere sul serio. In quella camera accogliente, curata nei dettagli delle pieghe delle lenzuola profumate, mi stavi insegnando che, innanzitutto, potevo, anzi, dovevo fermarmi, guardarti e toccarti. Fermarmi e lasciarmi guardare e lasciarmi toccare. La cosa più importante che volevi sentire e che ti dovevo comunicare era semplice e difficile nello stesso momento: “Sto con te”.
E invece molto spesso ci veniva voglia di fuggire da una relazione così intima, così penetrante come sa essere quella con te e programmavamo uscite, laboratori, passeggiate, ufficialmente per stimolare la tua sensorialità, di fatto per alleggerirci dal peso che il tuo fardello posava sul nostro petto. Ma forse ci stava anche questo in fondo, il dolore deve prendere aria per farsi più leggero.
Mi hai insegnato moltissimo e oggi so che al mondo là fuori dobbiamo raccontare di te e dei tuoi compagni dell’avventura diversamente abili, del vostro essere per noi lo specchio della nostra identità: la cura dell’altro restituisce cura per se stessi.
Sei riuscita a farmi sentire inadeguata, a farmi arrabbiare,
sei riuscita a commuovermi, a farmi ridere, a farmi litigare con mezzo mondo per le barriere architettoniche, a farmi incaponire con quelle persiane che chiudevano male e disturbavano il tuo riposo, sei riuscita a muovere sentimenti profondi e potenti coi tuoi trenta chili di corpo splendidamente deforme, dolce Laura.
E poi, una mattina di inverno sei morta. Il tuo corpicino smunto non ha più retto.Te ne sei andata come una farfalla, leggera e incantevole. Il tuo viso rilassato ci raccontava che avevi smesso finalmente di soffrire e il fiume di lacrime che ti hanno accompagnata nel viaggio raccontava che tu, Laura, hai lasciato un segno nelle persone che si sono curate di te. Il tuo passaggio su questa terra è stato denso di senso, il tuo dialogo con noi una risorsa, la relazione con te, una crescita umana e professionale.
Daniela Pennacchia
Commosso dal sentimento, dal modo in cui con semplici ed umili parole si racconta una storia difficile ma non rara. Toccante. Che rende onore a chi, non solo per la professione scelta ma soprattutto per la bellezza interiore, riesce a smussare quegli spigoli propri di chi interiormente soffre dando loro la possibilità di trovare finalmente quella dignità, quella pace, quell’ amore che il destino ha loro negato.