Mia nonna mi raccontava che quando la sua gatta si ammalava se ne stava arrotolata su se stessa per giorni e giorni, attendendo pazientemente e senza lamentarsi che il dolore passasse.
Dormiva profondamente o sonnecchiava appena accanto al tepore della stufa, non si cibava, non reclamava coccole, né dispensava fusa.
Ma dalla cucina non si muoveva mai in quanto il vociare della famiglia, la carezza della mano grossolana del nonno o i nipotini chiassosi che le passavano accanto, avevano un qualche effetto taumaturgico sulla sua guarigione.
Attendere che il dolore passi. Almeno quello più acuto, quello che ti serra il cuore in una morsa strettissima. E’ ciò che si fa spesso nelle comunità psichiatriche. Si attende, protetti dalle cure degli operatori, rannicchiati nel proprio letto, cercando il sonno dell’oblio o buttati come un cencio sul divano della sala tv, lasciando occupare il silenzio dalla nenia di una televendita come da una finale di champions.
E’ uguale. Si attende, con la cicca accesa, senza aspirarla, che la cenere la consumi e cada a terra. Si attende, riempiendo il vuoto con del cibo di cui non si riconosce nemmeno un gusto. O bloccando del tutto l’appetito, come la voglia di uscire, di parlare con gli altri, di lavarsi, di fare l’amore.
Un giorno la gatta di mia nonna si ammalò seriamente e decise di non fermarsi in cucina come sempre faceva per aspettare di stare meglio. Decise che basta. Uscì dalla cascina e si allontanò col suo passo leggero senza che nessuno se ne accorgesse, senza che nessuno potesse immaginare. “I gatti vanno a morire lontano” proclamava saggiamente la mia nonna “…per non fare soffrire chi li ha accuditi”. Non la videro più tornare.
Ho sempre ascoltato con attenzione gli insegnamenti di mia nonna, ma questo non l’ho mai compreso fino in fondo. Come considerare un abbandono come un gesto di altruismo? Non mi ha mai convinta. Fino a quando non è toccato a Teresa.
Come una gatta, quella notte gelida di febbraio, Teresa ha deciso che basta. È uscita di nascosto dalla comunità, senza cellulare, senza giacca, senza le sue inseparabili sigarette e col suo passo lento si è diretta su quel ponte. Il fiume quella notte aveva un fascino particolarmente sinuoso. E le onde che si infrangevano sugli scogli avevano un richiamo benevolo di pace. La pace che decenni di farmaci e di terapie di riabilitazione non erano riusciti a farle trovare. Uno, due, tre, stop.
Come una gatta, quella notte gelida di febbraio, Teresa ha scelto di morire andandosene lontano dagli occhi e dal cuore, grande, degli operatori che da anni con dedizione professionale e affetto innato si dedicavano alla sua cura.
Cosa hai lasciato sulla sponda del fiume Teresa? Cosa ti sei portata con te? Quale è stato l’ultimo pensiero prima di lasciarti andare? I tuoi figli, di cui custodivi gelosamente la foto nel portafoglio: “l’unica cosa che mi è riuscita bene nella mia vita”, dicevi. Vero, ti sono riusciti stupendamente bene. Ma l’amore non può tutto. E per quanto immenso quello che vi legava, non è riuscito a trattenerti.
E noi? Non siamo stati capaci di farti capire quanto speciale e preziosa tu fossi, non siamo stati capaci di tirarti su dal tuo pozzo nero, non siamo stai capaci di offrirti uno sguardo altro dal tuo, che ti mostrasse il tuo valore e che ti facesse capire che nella miseria di questa vita ci sono sprazzi di serenità nelle piccole cose di tutti i giorni che vanno afferrati e tenuti stretti stretti per non sprofondare. Com’è pungente la sensazione del fallimento.
Ma chi ci crediamo di essere? Con quale imbarazzante presunzione pensiamo che due pillolette, un corso di cucina, uno di teatro e qualche colloquio clinico possano bastare a liberare certi cuori fragili e malati dalla morsa letale della depressione?
Non è forse più onesto e “sano” anche per noi arrendersi, accettare e accompagnare i percorsi delle vite umane con cui ci confrontiamo quotidianamente, qualunque essi siano, con rispetto e umiltà?
Te ne sei andata nel silenzio della notte Teresa, non volevi che nessuno ti fermasse ancora una volta, non volevi che nessuno si preoccupasse, che nessuno ti vedesse nella tua disperazione rassegnata. Hai scelto, come una gatta, che basta, che non ne avevi più. Ma hai anche scelto di dileguarti timidamente, per non disturbare, per non inquietare.
Siamo tornati sulla sponda del fiume, giorni dopo, e abbiamo deciso di trovare il tuo sorriso aperto e malinconico, la tua mania per le pulizie, la tua voglia di cantare e recitare, l’odore forte di tabacco, le mani vissute e un poco tremanti con cui preparavi i tuoi manicaretti succulenti. Abbiamo scelto di stringerti ancora una volta e poi di lasciarti andare anche dal nostro cuore, alla tua pace.
Uno, due, tre, stop.
Me gusta leer y visitar blogs, aprecio mucho el contenido, el trabajo y el tiempo que ponéis en vuestros post. Buscando en Google he encontrado tu web. Ya he disfrutado de varios artículos, pero este es muy ameno, es unos de mis temas favoritos, y por su calidad he disfrutado mucho. He puesto tu blog en mis favoritos pues creo que todos tus artículos son interesantes y seguro que voy a pasar muy buenos momentos leyendolos.
[url=http://stopaltabacomalaga.com/terapias/terapia-laser-dejar-de-fumar]dejar de fumar[/url]