Da oltre un anno in Piemonte la psichiatria sta attraversando un periodo di grossi scossoni, incertezze, paure.
È infatti dal giugno dello scorso anno che la Regione Piemonte, pubblicando la legge regionale 30/2015 “Riordino della rete dei servizi residenziali della Psichiatria”, ha gettato sconforto su quanti sono coinvolti, ovvero i diretti interessati ed i loro famigliari, gli operatori pubblici e del privato sociale, le associazioni, gli enti socio assistenziali ed i comuni chiamati a contribuire.
Ma di cosa si tratta? Si parte dalla necessità e dal reale bisogno di fare riordino e normare la psichiatria per garantire ovunque qualità e professionalità. Questo si traduce poi in una riforma nella sanità piemontese ai tempi della crisi, che ha l’obiettivo di migliorare la situazione della psichiatria, soprattutto nei suoi variegati e talvolta caotici aspetti dell’offerta residenziale, mettendo un po’ di ordine. Il riordino è stato ipotizzato – e quindi legiferato – in una forma che di fatto rischia di stravolgere l’attuale sistema dei servizi, andando a toccare in maniera pesante diversi aspetti. Gli elementi di criticità che inducono a non considerare questa delibera un atto in grado di dare al Piemonte una risposta congrua, sostenibile e qualitativamente alta ai bisogni di residenzialità psichiatrica sono numerosi: i requisiti strutturali, gestionali e organizzativi, il sistema di tariffe, i profili professionali e le modalità di intervento e di trattamento, il coordinamento sostanzialmente eliminato.
La reazione dei diretti interessati dalle conseguenze della riforma non si è fatta attendere: data l’inefficacia del confronto diretto, si è presto passati per le vie legali. Dall’agosto 2015 infatti un insieme di ricorsi al Tar del Piemonte (presentati su questa DGR 30/2015 dalle cooperative sociali, dalle famiglie, dai comuni, e da altri) ha innescato un duro braccio di ferro con la Regione ed ha aperto paralleli tavoli di confronto e miglioramento della stessa con le rappresentanze del sistema cooperativo, tavoli ancora lontani da un accordo sui nodi principali. Il Tar a inizio 2016 ha congelato l’entrata in vigore della legge e chiesto un miglioramento alla Regione Piemonte che tenesse conto dei rilievi dei ricorrenti. Questo ha riaperto il confronto, non sempre efficace e risolutivo. A metà luglio, due mesi fa, la trattativa si è conclusa e l’iter della riforma riprende in questi giorni, nelle sue sedi istituzionali.
Cosa rischiamo con questa riforma della psichiatria? Di mandare all’aria la riabilitazione e la cura terapeutica così come le abbiamo conosciute e vissute con passione negli ultimi 40 anni, con percorsi riabilitativi, con una cultura dell’inclusione fatta di quotidianità e di concreto accompagnamento nella vita della comunità cittadina e territoriale, secondo criteri di apertura, di reciproca conoscenza delle plurali diversità e conseguenti responsabilità. La riforma prevista disconosce gli insegnamenti di molti maestri, Henry e Pirella tra gli altri per la nostra cooperativa, che molto hanno fatto proprio partendo da Torino per superare gli ospedali psichiatrici ed una certa idea di terapia, cura e contenimento. E’ davvero un cambio di paradigma, una questione culturale oltre che amministrativa, organizzativa ed economica.
Oggi, con la imminente entrata in vigore della nuova riforma, rischiano di non sopravvivere le strutture con piccoli numeri perché se “piccolo è bello”, questo principio non vale più ai tempi della spending review. Rischiano i gruppi appartamento – formule di accoglienza e di vita in gruppi di 4-5 persone, affiancate da educatori ed operatori – dove quotidianamente si crea cultura del vivere insieme, per gli assistiti, ma anche per i vicini di casa, attraverso percorsi di inclusione reale e di prevenzione (con dimostrato contenimento effettivo dei costi diretti ed indiretti).
“Mi chiamo io da solo”, video realizzato da Progetto Emmaus qualche anno fa, racconta in maniera breve e diretta l’esperienza di riabilitazione narrata dai protagonisti che vivono nei gruppi appartamento.
Le persone ospitate rischiano di dover tornare a casa perché non in grado di affrontare la spesa di compartecipazione, spostata in parte dalla sanità al diretto interessato; rischiano di dover interrompere l’inserimento socializzante o lavorativo perché ridotte le risorse per promuoverlo e monitorarlo; rischiano uno spostamento in una struttura più istituzionalizzata per la chiusura del proprio Gruppo Appartamento considerato non più idoneo, dopo 20 anni, a svolgere la funzione. Gli operatori rischiano di vedere declassato il loro intervento da educativo-riabilitativo a puramente assistenziale, con conseguente demotivazione ed abbassamento del coinvolgimento professionale.
L’impegno e la speranza sono quelli di trovare una soluzione condivisa tra i vari attori di questa partita, ricordando che nel confronto si possono cogliere posizioni intermedie di incontro tra le parti che soddisfino tutti, o per lo meno nelle quali tutti si possano riconoscere.
A tal riguardo, vanno assolutamente salvati alcuni principi ed insegnamenti:
- Il vissuto nel mondo reale di tutti i giorni, fatto di attività quotidiane, dalla spesa e dal cucinare insieme, alla pulizia degli spazi comuni, dagli inserimenti lavorativi e socializzanti, ai laboratori ed altre forme di partecipazione di inclusione;
- Una buona dose di inventiva e di passione, necessaria agli operatori per poter dare il meglio e vivere il proprio lavoro da protagonisti, proponendo con energia situazioni e attività inclusive. Ciò è possibile con adeguate risorse in termini di compresenze, per non rischiare di ridurre la professionalità a interventi di controllo-assistenza-somministrazione terapia e null’altro;
- Il progetto di vita di ogni nostro paziente, cui non va negato il diritto di potersi pensare e sperimentare in situazioni nuove per lui, di co-progettare percorsi evolutivi flessibili e proiettarsi in un’idea di futuro, con l’autonomia raggiunta che presuppone non solo diritti ma anche doveri;
- La sostenibilità economica, che non comporti tagli ai servizi erogati, sostenibilità e durabilità non solo per gli operatori economici (cooperative sociali) ma anche per i diretti interessati e le loro famiglie, per i comuni ed i servizi sociali, chiamati a vicariare tagli al budget regionale;
- Un’idea di società aperta, nella quale si mantengano e crescano le condizioni inclusive perché lo spazio tra tutela e autodeterminazione sia abitato anche dalla comunità locale e dalla società civile.
Per poter fare questo dobbiamo quindi salvaguardare alcuni ingredienti, un patrimonio da custodire gelosamente e trasferire alle nuove generazioni: passione per il lavoro, capacità di rischiare quando è importante, durabilità e sostenibilità delle nostre organizzazioni, professionalità in continua crescita, attitudine nel pensare interventi flessibili e personalizzati, valorizzazione delle micro-culture come contesti veramente inclusivi e di crescita.
Alberto Bianco