“L’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare.” – Eduardo Galeano
La cooperativa Progetto Emmaus inaugurò il primo gruppo appartamento per persone disabili nel lontano 2002. Ricordo bene l’energia, l’entusiasmo dei colleghi che si apprestavano ad inaugurare una struttura che sarebbe poi stata utilizzata in parte come matrice o comunque come termine di paragone per i g.a. che sarebbe venuti in futuro. Confesso di aver provato un pò di gelosia per il clima di affiatamento che si respirava tra di loro, come dovrebbe essere prima di partire per una navigata trans oceanica. Attualmente Progetto Emmaus gestisce 4 g.a. per persone disabili con fasce orarie e coperture di operatori diversi. Da allora il modello di lavoro, sia in termini pragmatici che come presupposti teorici, è molto cambiato, anche perché sono cambiate le condizioni ambientali esterne. Il mondo è cambiato e inevitabilmente il mondo del welfare è cambiato: termini come crisi economica e tagli sono entrati a far parte del nostro lessico quotidiano.
Concretamente cosa voglio dire, che sono arrivati una serie di messaggi chiari, inequivocabili a livello nazionale (penso alla chiusura di fondi nazionali per le non autosufficienze) e regionale (il superamento delle doppie frequenze come centro diurno-g.a., unica modalità per allargare la platea degli aventi diritto, ma soprattutto il taglio di alcuni servizi territoriali). Di fronte a questo scenario non potevamo rimanere fermi, non potevamo continuare ad occuparci solo dell’asse casa, di autonomie domestiche, psicologiche etc. Siamo dunque passati, mi riferisco ai gruppi appartamento di Alba, ad un modello che prevede un’unica equipe di lavoro, con operatori che hanno le chiavi delle 3 case, conoscono tutti i 14 ospiti e viaggiano a sincrono.
Uno dei passaggi è stato unire le forze. Avevamo 4 strutture, ognuna con un’ equipe di lavoro a sé stante, gruppi ospiti che avevano qualche interazione ma non più di tante. Buona parte delle risorse operative era impiegate sull’asse casa; la tipologia di ospiti era (e rimane) molto eterogenea (da chi frequentava il centro diurno a chi iniziava un percorso che l’avrebbe portato al mondo del lavoro). L’orario era costruito sulla frequenza al centro diurno (16-9): il vissuto era che non un minuto potesse essere scoperto, senza operatori. Approccio tutorio non senza giustificazioni. Quando nel 2011 uno dei g. a. venne trasformato in tipo B, quindi con una copertura di 8 ore sulla fascia diurna una parte notevole di energie fu utilizzata per monitorare il vissuto di tipo abbandonico, il senso di colpa e i fantasmi (“oddio come faranno di notte senza fare pasticci”).
Parafrasando Seneca possiamo affermare “Per il marinaio che abbia una meta (la nostra è provare a costruire progetti di autonomia, di integrazione sociale per persone disabili) tutti i venti possono diventare favorevoli”, ed il mare è grande e sconfinato. Significa anche in positivo: se è possibile fare qualcosa basta con le scale di grigio, diamo spazio e potere alla dimensione della passione e del sogno. Se non siamo operatori appassionati, pur con tutti i nostri limiti umani, non possiamo pretendere che le persone ci vengano dietro. Diamo spazio alla dimensione del sogno, che non significa vivere sulle nuvole, ma tirarsi su le maniche, e provare a far qualcosa di nuovo; ne è esempio il laboratorio di attività equestre che è partito dal desiderio di una serie di ospiti e dalla passione di un collega . E’ stato possibile anche grazie al sostegno della Fondazione SocialAl di Alessandria, che ha contribuito al progetto “Insieme Verso l’Autonomia”, ed è stato messo a regime utilizzando una parte delle ore operative. Come reperiamo le risorse? Finanziamento tramite distribuzione volanti per Fiera del tartufo ed eventi collaterali.
“Ragione e passione sono anima e vela della nostra anima navigante” – Kahlil Gibran
Accompagnare all’autonomia psicologica, abitativa e lavorativa persone con insufficienza mentale è un percorso costellato di successi e sconfitte, che mette alla prova continuamente la persona disabile, la propria famiglia laddove essa è presente e gli operatori che tale percorso accompagnano.
Il modello di gruppo appartamento: i presupposti
Una delle difficoltà maggiori, nel costruire percorsi di autonomia per persone con disabilità, nasce dal fatto che fin dalla più tenera età, parte integrante del problema è ciò che il mondo rimanda loro: si tratta spesso di ruoli correlati con immagini infantilizzate (infanti, poverini). Può accadere che nel percorso evolutivo di un bambino con disabilità gli adulti di riferimento, per un eccesso di tutela, non pretendano da lui comportamenti adeguati per il vivere sociale e correlativamente si sostituiscano a lui nei processi decisionali. Senza assunzione di responsabilità da un lato e senza fiducia nella possibilità di cambiare dall’altro non è possibile divenire adulti integrati. Spesso poi la mancata individuazione rispetto alla famiglia di origine complica il gioco: il bruco che rimane nel bozzo non diviene farfalla.
Il lavoro degli operatori è innanzitutto diretto alla rete che orbita intorno alla persona: i famigliari, i vicini di casa, i colleghi di lavoro o del centro diurno, i compagni di gruppo appartamento sono fondamentali per tentare di modificare tale immagine. Si tratta di un lavoro di continua mediazione con la realtà, di costruzione di nuove immagini e di nuovi significati: l’operatore facilita la comunicazione, si pone accanto, ma non prende il posto rispetto ai processi di assunzione di responsabilità.
Cos’è un significato? I comportamenti umani sono finiti, limitati e i significati attribuibili sono infiniti. Esempio la signora Pinuccia , 55 anni e che per qualche mattina alle 7 precise esce e fa pipì nell’androne di casa scatenando l’ira funesta di alcuni vicini. La stessa signora racconta poi in giro (vicini, le perpetue della chiesa) che il g.a. è un luogo di perdizione e tutti gli uomini, soprattutto gli operatori la desiderano, lei non sa più come fare. Quale significato attribuiamo al comportamento bizzarro della signora? E’ una forma di esibizionismo per manifestare desiderio. La repressione di un bisogno così forte come l’affettività e la sessualità che deriva in primis dalla cultura: siamo animali sociali, ci innamoriamo e abbiamo desideri. Dare no a priori equivale a lasciare le persone sole con il proprio vissuto.
Non sostituirsi all’ospite è l’unico vero comandamento: chi arriva in g.a. spesso non è abituato a scegliere, a prendere decisioni, a prendersi cura di se stesso, della casa e di chi la abita. Non sostituirsi, non adottare un approccio tutorio, è l’esercizio professionale che necessita di maggior attenzione e monitoraggio, ma è ciò che permette di accompagnare all’adultizzazione, alla crescita personale, all’assunzione di una responsabilità di fronte alla scelta e alle proprie azioni. E’ la cosa più facile a spiegarsi, più difficile da realizzare. La fiducia nella possibilità di cambiare, di progredire è qualcosa di estremamente potente, è un’energia che lavora dal di dentro, permette alla farfalla di spiegare le proprie ali.
Il g.a. non può essere un luogo assistenziale, ma una palestra di cambiamento dove gli operatori si giostrano tra un precario equilibrio tra guidare l’ospite ed i lasciarlo andare. Avere libertà di scelta, divenire autonomi (all’ interno di una rete di relazioni, poiché l’indipendenza assoluta non esiste per nessuno) sono cose non da poco: le crisi di carattere evolutivo sono all’ordine del giorno e agli operatori chiediamo di saper gestire vissuti molto forti. Il contesto (famiglia, lavoro, quartiere) può aiutare molto, ma bisogna lavorarci; questo perché spesso gli ospiti provengono da storie spesso dolorose e frammentate ed utilizzano a volte forme diverse di devianza per provare a tenere insieme parti di sé altrimenti incompatibili: senza un lavoro puntuale sul contesto avremmo le armi spuntate (ad esempio i vicini di casa o i datori ed i colleghi di lavoro possono essere i primi alleati).
“Dobbiamo usare il tempo come uno strumento, non come una poltrona” – J.F.Kennedy
La gestione del tempo nei servizi per persone con disabilità pare spesso caratterizzata da una vera e propria ossessione per riempire tutti gli spazi di tempo vuoti, ma ciò risponde più spesso ad un’ ansia ed a un bisogno di controllo del contesto (istituzioni ed operatori in primis) che non ad un reale bisogno degli ospiti. Ogni essere umano adulto sperimenta talvolta noia ed ansia da vuoto; ma a dosi accettabili si tratta di emozioni sane. Dalla noia e dal bisogno umano di impiegare in maniera costruttiva il proprio tempo può scaturire creatività, desiderio.
È compito di noi operatori riconoscere la scintilla di vita presente in ognuna delle persone con le quali lavoriamo ed alimentarla. Per fare questo abbiamo dalla nostra il nostro bagaglio personale, le nostre competenze professionali ed il tempo, quello della relazione.
“Se vuoi andare veloce, vai da solo. Se vuoi andare lontano, vai insieme a qualcuno.” – proverbio africano
Vivere in un g.a. significa in primo luogo condividere un’esperienza di gruppo basata sui rapporti umani e sull’affettività. Il gruppo è luogo di contatto, sperimentazione e cambiamento; vivere in tale contesto i propri sentimenti, le proprie paure e difficoltà significa trovare uno spazio comune, un nuovo luogo di appartenenza e crescita. Il gruppo inoltre facilita la presa di consapevolezza delle proprie modalità di relazione con gli altri, dei propri atteggiamenti, delle proprie paure, delle proprie ansie, dei propri limiti e punti di forza.
In questo modo è possibile gradualmente dare sempre più spazio alla consapevolezza, all’espressione autentica di se stessi e della propria assertività. Attraverso il confronto quotidiano con l’altro è possibile rafforzare la fiducia in se stessi, vivere esperienze di cooperazione e di solidarietà, apprendere nuove abilità e competenze sperimentabili nel gruppo stesso e trasferibili nella vita di tutti i giorni. Gradualmente il confronto con i pari facilita la comprensione dei propri vissuti e dei propri stati emotivi.
Specchiandosi negli altri, si impara a conoscere se stessi.
Conclusioni
Le nostre stelle polari erano e rimangono Relazione ed Autonomia, ma negli anni tali vocaboli si sono colorati ed arricchiti di sfumature differenti: anche se il primo passo rimane la possibilità e la capacità di scegliere. L’attenzione degli operatori è ora maggiormente al “fuori” ed alle risorse esterne (che sia l’azienda per un inserimento lavorativo o l’associazione che organizza una serie di corsi serali).
A noi operatori sociali è richiesto di costruire progetti di Autonomia: l’autonomia è una tensione, è un concetto dinamico, più che un prodotto dei nostri sforzi è un producente al quale lavorano più attori, risultato in itinere del sincronismo di eventi, di disposizioni d’ animo e di energie. Lavorare a progetti di Autonomia significa:
- Avere in mente la storia dell’ospite, per provare a stabilire connessioni tra il qui ed ora e quanto successo prima
- Accogliere le parti dolorose: non in senso pietistico ma se non proviamo idealmente ad infilarci nei pantaloni di quella persona non posso produrre interventi efficaci
- Vigilare i limiti
- Assumerci la responsabilità del percorso, tenendo ferma la barra del timone contro tutti gli eventuali scossoni
- Quando è necessario, prendere contropelo gli elementi disfunzionali (M. Sassolas) patologici, o devianti.
La passione degli operatori e la possibilità di portare le proprie passioni all’ interno del proprio lavoro (ad esempio i laboratori di equitazione, piscina, orto) sono un catalizzatore di energie fantastiche e sono uno dei motori del nuovo modello di intervento. La passione degli ospiti nel cimentarsi in attività che hanno scelto e desiderato (nessuna attività laboratoriale è stata calata dall’alto, nessun percorso di tipo lavorativo è stato intrapreso prescindendo da attitudini personali e predisposizione degli ospiti) sono però il cardo ed il decumano del loro percorso umano di crescita, che passa anche attraverso il prendersi cura di se stessi (come avviene in taluni laboratori di carattere esperienziale).
Dott. Davide Crudi, d.ssa Michela Sperone