L’inizio di Progetto Emmaus per me è stato un campo da calcetto a Rodello. Ancora ricordo questa scena: è primavera. Un bambino senza passato e senza futuro che si chiama B. ha la palla nei piedi. Il vento delle colline gli spazza i capelli biondi e lui si avvicina alla porta gridando ad alta voce il nome di giocatori in cui si impersona. Fa la telecronaca della sua stessa azione. Cristiano Ronaldo è il preferito. Ogni due o tre passi si ferma, tira fuori un fischietto da arbitro e fischia, fingendo di essere anche l’arbitro della partita. E’ tre personaggi in uno.
Io sono in porta. Nel campo ci siamo solo noi. Si sente il rumore del vento e la campana della chiesa suonare. Lui si avvicina e la voce è sempre più forte. Io esco dalla porta, con i guanti da portiere infilati. E’ l’ultima azione. Poi non ci vedremo mai più. Trattengo a fatica le lacrime, perché abbiamo passato settimane insieme a proteggerci e so che non sarà più possibile incontrarci di nuovo. B. si avvicina alla porta e sta per tirare. Non so se fargli fare gol o parare il tiro perché con i bambini si fa così, a volte li fai vincere e volte gli insegni a perdere, ma lui non è un bambino come gli altri. Con la mente torno indietro a come ho conosciuto B., quel marmocchio che in pochi giorni mi ha cambiato la vita.
B. è un bambino in affido temporaneo. Ha diverse diagnosi formulate da esperti dottori, prende farmaci, ma quando lo guardi negli occhi capisci che ha solo il cuore frantumato perché le sue radici non hanno potuto attecchire su alcun terreno, e troppi sguardi adulti l’hanno reso invisibile. La famiglia attuale ha fatto il possibile, ma nessuno l’ha aiutata. Il dolore di B. era troppo grande per le spalle di chiunque e derivava da ingiustizie troppo antiche, da una società incapace di proteggere la fragilità. A breve B. dovrà essere trasferito in un altro territorio. Dovrà riniziare da capo, abbandonare i compagni di scuola. Le regole istituzionali dicono che non sarà possibile mantenere rapporti con me né con la famiglia che l’ha ospitato. E’ l’ennesima volta. Troppo per chiunque. Per facilitare questo passaggio io svolgo mansione di “educatore” – parola troppo importante, in verità ho la più umile funzione di impalcatura, di argine per un’anima che altrimenti strariperebbe. Non so se sono all’altezza del compito, penso di no. Faccio del mio meglio. Ho regalato a B. dei cartellini da arbitro, uno giallo e uno rosso.
Con la mente torno nel presente, sul campetto da calcio mentre lui si avvicina con la palla nei piedi. Si sente come Cristiano Ronaldo. E’ l’ultima azione, poi non ci vedremo più. Si avvicina e la telecronaca cresce di intensità. Al momento del tiro finale, quando deve calciare verso la porta, il piccolo non tira nemmeno: lascia andare la palla in fallo laterale e cade in ginocchio. Scoppia in lacrime. Non aveva mai pianto prima. Io mi avvicino e lo abbraccio forte. Stiamo così per molti secondi, lui a singhiozzarmi sulla spalla e io a trattenere tutto perché non so nemmeno più piangere. E lui, a un certo punto, tira fuori i cartellini da arbitro dal taschino della maglietta, quelli che gli ho regalato, e soffia forte nel suo fischietto espellendo un giocatore immaginario, per un fallo immaginario. Sapevo che era il suo modo di fare uscire tutta la rabbia e il rancore, la furia verso una vita troppo complessa per la sua semplicità. Eppure in qualche modo, in quel gesto, tra quelle lacrime e quel cartellino rosso, mi è sembrato di sentire qualcosa muoversi. Qualcosa di profondo e indicibile, un germoglio ancora fioco e debole. Aveva la forma di una speranza che iniziava ad accendersi nell’oceano scuro e denso che avvolgeva la vita di B.
Progetto Emmaus è iniziato così, è stato questo: una speranza intravista. Che muove i primi germogli proprio nel luogo più impensabile, in un campetto di calcio vuoto a Rodello, quando ogni cosa sembra lontana, triste, irrimediabile.
Matteo Viberti