Due anni di pandemia hanno costretto adolescenti e giovani adulti a una situazione di disagio prolungato. Sono incrementate solitudine e impotenza, intere famiglie hanno conosciuto sfilacciamenti del proprio tessuto emotivo, sottrazione degli appigli abituali. Il progetto La Valigia di Arlo, realizzato con il sostegno della Compagnia di Sanpaolo all’interno del bando Salute Effetto Comune, è iniziato nel 2021 con l’intenzione di offrire ai ragazzi e le ragazze di età compresa tra i 18 e i 24 anni una nuova opportunità di protagonismo. Movimento corporeo, sostegno all’abitare, scrittura creativa, teatro, registrazione e produzione musicale, fotografia, sport, canto e improvvisazione, attività agricole, stampa naturale, sartoria artigianale, viaggi di gruppo: sono solo alcuni degli strumenti che sono stati creati in base alla singola persona, alle sue preferenze e particolarità. Il ragazzo insieme all’operatore di riferimento sceglie il proprio percorso, lo allestisce nel tempo in base ad obiettivi specifici, sogni e desideri. La persona diventa protagonista del proprio percorso di crescita.
A distanza di un anno e mezzo dall’avvio, è il momento di bilanci. Oggi sono circa 40 i ragazzi i beneficiari del progetto, insieme alle loro famiglie. Alcuni di loro svolgono attività individuali, altri di gruppo. L’esperienza si declina in molte forme a seconda della specificità della storia di ognuno. Le narrazioni sono tante, fatte di contatti quotidiani, caffè presi al bar, ostacoli da superare, momenti critici, recite di teatro, disegni ed e movimenti di danza, giochi, telefonate, riunioni. C’è chi partecipa a laboratori di socialità, chi preferisce scrivere canzoni in maniera individuale con l’affiancamento di un operatore, chi cerca un lavoro e chi invece vorrebbe allenarsi all’autonomia con prove di abitazione con altri inquilini coetanei. Arlo diventa palestra concreta e immaginativa, luogo del possibile.
A inizio settembre la progettualità ha visto come protagonista lo psichiatra nativo di Alba e operativo nel territorio dell’Emilia Romagna Giuseppe Tibaldi. Come ricercatore e relativamente al tema delle psicosi ha iniziato a raccogliere testimonianze di guarigione che sono poi confluite in alcuni volumi (“La pratica quotidiana della speranza” e “Vivere con le voci: 50 storie di guarigione” ad esempio). Tibaldi ha cercato di ricavare (anche consultando esperienze estere) alcuni denominatori comuni di queste esperienze. Ad esempio la speranza e il supporto tra pari. La speranza e le aspettative positive, il lavorare sulle risorse e sulle possibilità “evolutive” rappresentano un fattore indispensabile in ogni percorso di recovery. Tibaldi osserva come sia importante riconoscere e rinforzare questi aspetti anche nelle situazioni all’apparenza più difficili e dove non si intravedono spiragli di lavoro.
Oltre a questo tema Tibaldi ha parlato anche del metodo del dialogo aperto (Open dialogue) ideato in Finlandia e che si sta diffondendo in alcuni Dipartimenti di salute mentale come cultura di una cura fondata sull’ascolto dell’altro e sul tentativo di creare significato all’esperienza della sofferenza mentale: tutto avviene attraverso incontri “aperti” che prevedono la presenza dell’utente ma anche dei famigliari, vicini di casa, amici o conoscenti che fanno parte della rete di esperienze significative per la persona. In particolare, l’Open Dialogue è la forma di applicazione in campo psichiatrico di un universo più ampio, di Pratiche Dialogiche, che vedono come elemento chiave la condivisione delle decisioni da parte dei diretti interessati. Si punta anche alla condivisione dei significati dell’esperienza psicotica, insieme alla rete che circonda la persona sofferente.
Il presupposto teorico è di rottura rispetto alle prassi dominanti: secondo Tibaldi una grande parte della “psichiatria parte dal “presupposto dell’incomprensiblità dei contenuti deliranti, e dal conseguente utilizzo di farmaci con finalità di soppressione del sintomo. Invece dietro questi vissuti ci sono nuclei importanti dell’esperienza e della storia di queste persone”. Lo sviluppo di percorsi formativi e relazionali utili a non passare sotto silenzio questi significati, sia attraverso i gruppi di mutuo-auto aiuto che attraverso l’“open dialogue”, è ritenuto da Tibaldi un elemento fondamentale dei percorsi di “guarigione”. Come accennato in precedenza, un’altra strada fondamentale è l’inclusione di persone significative nel processo: famigliari e amici soprattutto. Il coinvolgimento avviene in accordo con la persona protagonista: è lei che sceglie chi “invitare” in un preciso momento. Questo approccio di coinvolgimento e di allargamento avviene non soltanto nei momenti di esordio della difficoltà (che rimangono cruciali per il successivo evolversi del percorso) ma anche nelle fasi successive.
Tutto questo avviene in una cornice rispettosa della persona, dei suoi bisogni e desideri. Qualsiasi decisione viene co-costruita e mai imposta dal professionista. Secondo Tibaldi infatti i professionisti odierni soffrono di quello che lui chiama “paternalismo democratico”, ovvero la convinzione, e la pratica quotidiana che ne deriva, secondo cui essi sarebbero i “migliori rappresentanti dei bisogni e degli interessi della persona” che si rivolge al Servizio. Quindi, i professionisti tendono a decidere al posto del diretto interessato: a “fare per” anziché “fare con”. La condivisione delle scelte, purtroppo, viene spesso vissuta come de-qualificante dagli operatori dei Servizi”. Per approfondire: www.parlaconlevoci.it.
Progetto Emmaus